Manifestazioni psicopatologiche nelle istituzioni penitenziarie

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Giacomo Piperno

*A cura di Sandra Candelise

Càrcere, dal latino carcaer-eris “mura”, utilizzato in passato per indicare le sbarre del circo dalle quali uscivano i carri pronti per la competizione. Successivamente il termine assume una nuova configurazione, ovvero indicando il luogo della prigione. Ambiente in cui le persone vengono rinchiuse a seguito di un crimine, venendo private della loro libertà personale. Questa atmosfera permette di immergerci all’interno delle rigide mura, l’ambiente freddo, oppressivo e coercitivo che destruttura l’identità individuale. L’interazione dinamica e continua tra ambiente-individuo ed individuo-ambiente, crea delle modificazioni fondamentali in ambo le parti, trasformazioni che possono essere positive o negative a seconda del contesto ed a seconda delle risorse individuali.

L’ambiente delle istituzioni carcerarie

L’analisi dell’ambiente carcerario è di grande rilevanza nell’ambito dell’insorgenza e della gestione delle psicopatologie all’interno delle istituzioni penitenziarie. La letteratura scientifica ha da sempre sottolineato l’importanza fondamentale dell’ambiente per lo sviluppo dell’individuo e della sua evoluzione. I luoghi, gli spazi e il tempo sottopongono l’uomo a stimoli e sensazioni, che possono generare diversi effetti sull’agire individuale, contribuendo ad alleviare o aggravare una determinata condizione. Il cuore della ricerca, perciò, muove proprio le fila dall’analisi di un contesto ambientale spesso degradato, privo di libertà e talvolta di dignità individuale, sulla psiche umana. La psicologia ambientale è quella branca che si occupa di come l’ambiente possa influire e influenzare il comportamento e la mente degli individui e di come l’uomo tenda a sua volta a modificare l’ambiente stesso.

Un sistema circolare

Come teorizzato dalla scuola di Palo Alto, attiva nel campo degli studi della pragmatica della comunicazione, si può immaginare l’interazione dell’uomo con l’ambiente come un sistema circolare, in cui è impossibile isolare il soggetto dal contesto di relazioni in cui è inserito. Tramite le esperienze trascorse in un determinato ambiente, si stabiliscono continui condizionamenti, per cui determinati aspetti del contesto ambientale stesso, vengono messi in relazione con emozioni, avvenimenti e sensazioni.  Ciascuno, vive dunque all’interno di reti relazionali che lo influenzano, e sua volta esercitando un’influenza sugli altri individui con cui entra in contatto, la forzata condivisione del proprio spazio intimo, la costante sorveglianza, e la condizione di costrizione, possano esercitare una pressione estenuante che può degenerare in annullamento e malessere psicofisico.

La mente e il corpo del detenuto una volta immersi nell’ambiente carcerario reagiscono per cercare un adattamento, ma l’inadeguatezza delle strutture e l’aggressività della gestione, può contribuire a degenerazioni del disagio, che possono giungere anche alle peggiori delle ipotesi. Dall’insorgenza di manifestazioni psicopatologiche fino, ad esempio, al suicidio. Non a caso, dai più recenti dati del XV Rapporto dell’Associazione Antigone sulle condizioni di detenzione, si evince come a togliersi la vita siano circa l’11,4% su 10.000 detenuti. Ricomponendo il quadro complessivo più recente, secondo le stime di Ristretti Orizzonti – che poco si discostano da quelle operate dall’Amministrazione penitenziaria (10,4%) – nel solo 2018, 67 reclusi si sono tolti la vita. Adriano Sofri su Il Foglio , con amara ironia scriveva già nel 1999: “Nell’ultimo mese 10 sono evasi tre da Rebibbia e uno da Milano Opera. Gente all’antica, con lenzuoli annodati. (…) Ma la forma di evasione più diffusa e subdola, perché si maschera in modo da essere ignorata nelle statistiche criminali, è il suicidio”.

Interviene la Psicologia Ambientale

Nell’ambito degli studi di Psicologia Ambientale si osserva come il luogo e lo spazio rappresentino l’unità di misura tra uomo e ambiente. Il punto comune in cui l’uomo, in quanto corpo vivente (Leib), espleta le sue azioni nell’ambiente che lo circonda. Nell’interazione dell’uomo con un luogo, inoltre, secondo la branca della Psicologia Ambientale sono tre le componenti fondamentali da tenere in considerazione: gli attributi fisici del luogo; le attività che è possibile svolgere all’interno dello spazio, e le rappresentazioni cognitive derivanti dalla relazione con esso. Il nostro comportamento e il modo in cui pensiamo, dunque, sembrano dipendere ed essere strettamente influenzati dal dove siamo oltre che dal chi siamo. Marco Costa, nel suo manuale di Psicologia Ambientale e Architettonica, riporta un esempio estremo, che sembra quasi banale se rapportato all’ambiente carcerario. L’esempio, però, sembra calzante per comprendere gli antipodi del continuum su cui l’ambiente inficia nei comportamenti. In prossimità delle spiagge, scrive Costa, non appena superato il confine della sottile linea che separa la sabbia dalla litoranea, gli individui si sentono come catapultati in un universo parallelo, le norme sociali, i comportamenti e le attitudini sulla riva della spiaggia, cambiano radicalmente rispetto a qualsiasi altro luogo. In quell’occasione un individuo si può sentire libero di raccogliere un giocattolo e porgerlo a una bambina sul bagnasciuga. Probabilmente in nessun altro luogo, una bambina interagirebbe così facilmente con un individuo a lei estraneo. “In spiaggia è concesso stare seminudi e vestiti solo in costume, mentre nella strada vicino no. In spiaggia, persone estranee fanno conversazione molto più facilmente ed in modo più rilassato di quanto avvenga in altri contesti”. In spiaggia da un lato, in carcere dall’altro, la gerarchia sociale cambia: subentrano nuove differenze di status, idee e valori assumono una rilevanza diversa rispetto ad altri contesti e, nel caso dell’ambiente carcerario, hanno minor capacità di essere espressi. I ruoli di ciascun detenuto nell’ecosistema carcerario mutano, sono riassegnati e imposti dall’autorità. A ciò si deve aggiungere un ulteriore aspetto che riguarda l’incidenza dell’ambiente e dell’uomo su di esso. Nello specifico è sempre Costa ad evidenziare come lo sradicamento dal proprio contesto e il trasferimento in un ambiente nuovo, renda gli individui più vulnerabili, più ricettivi e, infine, più facilmente manipolabili. La simbiosi con l’ambiente, può dunque anche essere di tipo negativo, arrivando a ostacolare il benessere fisico e psichico dell’individuo.

L’esercizio del potere attraverso lo spazio e il tempo negli istituti di pena

Già nel 1975, nel saggio “Sorvegliare e punire” Foucault rifletteva che il carcere non servisse a custodire e rieducare i detenuti bensì per assicurare il raggiungimento di un altro scopo: l’esercizio del potere. La sua concezione del potere, infatti, era composta da diversi elementi quali: repressione, sorveglianza costante e manipolazione dei sottoposti. Il carcere, secondo Focault, non è che una delle istituzioni della ‘società disciplinare’, in cui gli individui sono controllabili e controllati, distrutti e ricreati. La società disciplinare nella teoria di Focault, attraverso l’utilizzo di determinati dispositivi esercita un controllare gli individui. Ad esempio, mediante la statistica delle nascite e delle morti, l’età, la provenienza, la demografia. La forza dell’istituto di pena, su larga e strutturata scala, sta proprio nel mantenere un controllo costante sui reclusi, nel decidere del loro spazio e del loro tempo. A più riprese, per questo, nella storia delle istituzioni carcerarie torna la tematica del controllo dell’ambiente, che risulta centrale nell’organizzazione delle strutture, soprattutto prima dell’avvento delle nuove tecnologie di sorveglianza. L’ambiente diventa in questa sede veicolo di oppressione dell’individuo. Considerate queste premesse, un detenuto che avesse una qualsivoglia patologia pregressa, finirebbe per mal adattarsi all’ambiente carcerario, che può addirittura innescare una patologia nuova o latente. La struttura carceraria nelle sue componenti architettoniche, è stata a lungo studiata per comprendere il funzionamento e le sue dinamiche interne.

Il Panopticon di Jeremy Bentham

Caposaldo delle riflessioni ambientali in ambito carcerario, è la teoria del Panopticon di Jeremy Bentham. Originariamente il Panopticon, è il modello, la struttura di un edificio ideato da J. Bentham nel corso della seconda metà del secolo XVIII, per rispondere alle nuove esigenze di organizzazione e controllo sociale dettate dallo sviluppo dei centri urbani e dalle mutate condizioni di lavoro, entrambi epifenomeni della cosiddetta prima Rivoluzione Industriale. La struttura del Panopticon si componeva di due anelli. In quello esterno, venivano collocati i prigionieri – o pazienti – più genericamente gli individui da osservare e controllare. L’anello interno, invece, assolveva la funzione di occhio, di sorvegliante, un Big Brother preorwelliano, in forma tale che i prigionieri fossero potenzialmente costantemente visibili; senza aver però la possibilità a loro volta di vedere. Nel Panopticon, gli individui da “soggetti di una comunicazione” sono trasformati in prigionieri, “oggetti d’informazione”. Alla base del Panopticon c’è una struttura architettonica capace di esercitare un potere invisibile. L’impossibilità di verificare l’esercizio attuale del potere di controllo, inibita dall’impossibilità fisica di osservare all’interno della torre di controllo, viene ottenuta grazie alla particolare struttura, che lo stesso Bentham ripetutamente sottolineata come l’intrinseca qualità del progetto, in un’ottica di riduzione dei costi, efficienza, semplicità e automazione. Dal Panopticon ovvero la casa d’ispezione, si evince come la visibilità, che assicura il funzionamento del potere, la sorveglianza, che diventa prevenzione, perché evita il ripetersi della colpa; e la punizione, che assicura la modifica del comportamento che a suo tempo generò la colpa, sono forme del potere moderno, in cui ciascun superiore sorveglia i suoi sottoposti senza essere visto, in istituzioni che tendono sempre più ad essere totalizzanti, chiuse, disciplinari. In senso lato il Panopticon può diventare anche metafora della modernità e delle sue istituzioni penitenziarie.

Panopticon

Ingresso nelle istituzioni penitenziarie, primo trauma del Sé

L’analisi degli studi presentati in quest’elaborato esplica come l’ambiente abbia un ruolo fondamentale per la stabilità dell’individuo, per quella del suo Sé, e per la sua consapevolezza. La radicale modifica dell’ambiente a cui originariamente si è abituati, provoca dunque delle reazioni. Il quadro generico della letteratura, in questo senso, sembra indicare come un cambiamento di questo tipo possa comportare delle frane interne nell’anima, stravolgimenti psichici che possono arrivare a vere e proprie distorsioni della realtà per cercare di farvi fronte.

 

Dall’Asylum di Erving Goffman al Sé traumatizzato

L’ambiente è una delle prime aree da cui partire, l’immagine iconica della struttura contornata da filo spinato forse potrebbe già bastare per trasmettere una prima sensazione di disagio. Focalizzando quest’analisi sull’uomo, sulla sua psiche all’ingresso di questo “mondo interno”, prendendo in prestito la definizione di Goffman, si analizzerà lo spettro di tutte le situazioni a cui deve far fronte il detenuto per sopravvivere, e sviluppare un modello di adattamento al nuovo contesto ambientale. Durante questo processo di adattamento, nel cercare di registrarsi in quell’ambiente e in quel clima, l’individuo subisce numerosi cambiamenti esterni ed interni, dalla divisa, passando per la perdita del nome, fino alla frammentazione del Sé, dei propri ideali e delle proprie difese. Questi terremoti dell’anima possono causare forti traumi e innescare lo scoppio di patologie durante il percorso in carcere. Il presente capitolo andrà dunque ad approfondire come il carcere possa divenire “contenitore di disagi”, raccogliendo i reflussi delle sofferenze di vita vissuta di chi si ritrova ad affrontare il percorso di espiazione della pena. Goffman, nel suo già citato Asylum, propone un approccio causale circa la patogenicità delle istituzioni totali. La teoria del sociologo, nonostante il tempo trascorso e le differenti implicazioni del tempo, vengono alla luce asimmetrie di ruolo, posizione sociale e di potere, possibile causa di disagio per l’individuo nelle sue declinazioni più intime. Nel carcere alcune regole vengono infrante, e il Sé perde la barriera tra mondo esterno e mondo interno, producendo una drastica rottura con i ruoli passati. Non è facile trovare una definizione del Sé univoca e condivisa da tutti gli studiosi ma potrebbe essere definito come la struttura centrale che racchiude una serie di componenti personali consentendo all’uomo di definirsi.

Filo SPinato

il Sé che interagisce

Le neuroscienze hanno confermato che il nostro cervello e il nostro senso di Sé sono plasmati dalle interazioni con gli altri. Siamo biologicamente predisposti per condividere piaceri l’uno con l’altro, così come per rispondere allo stress cerchiamo conforto dalle persone in cui abbiamo fiducia. Sono proprio queste gli elementi che vengono meno quando ci troviamo davanti a un detenuto che ha affrontato ‘l’ingresso’, che ad esempio Luciano Lucania, presidente della Società italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (SIMSPe), definisce come “primo trauma emotivo”. La ricerca intende quindi aprire degli interrogativi 49 circa le conseguenze che questo tipo di trauma può avere, in assenza di risorse e strategie di copying da parte dell’individuo. Si presume possa evolvere in un ampio ventaglio di conseguenze psicopatologiche. “Il compito del nostro cervello è quello di monitorare e valutare costantemente ciò che sta accadendo al nostro interno e nell’ambiente circostante. Queste valutazioni vengono trasmesse chimicamente nel flusso sanguigno e impulsi elettrici nei nostri nervi provocando cambiamenti sottili o incisivi su tutto il corpo e il cervello”. Questi sistemi possono andare in sovraccarico, in tilt, soprattutto se siamo continuamente esposti a minacce, o anche solo alla percezione di una minaccia come può avvenire all’interno di un’istituzione penitenziaria. Il Sé ha un ruolo vitale nel mantenimento della connessione con la realtà e del nostro equilibrio interno. Tutto il sistema del Sé viene attivato quando le persone vengono messe di fronte all’annientamento. In quell’occasione, il Sé subisce delle vere e proprie aggressioni, delle contaminazioni nell’esistenza, è penetrato da una continua interazione con l’altro che tende a una costante sanzione, in particolare all’inizio, quando ancora il recluso non ha accettato le regole e forse neanche la sua condizione.

L’iter di ‘ammissione’: “primo trauma emotivo”

Il trauma, o “processo di ammissione”, avviene fin dall’inizio dell’ingresso in carcere. Ancor prima della visita ‘sanitaria’ l’iter di immatricolazione procede con la nascita di un fascicolo personale, dossier, dati anagrafici, foto segnaletiche, impronte digitali e dichiarazioni di problemi con altri detenuti. Segue poi la perquisizione, con ritiro di orologio, cintura e di tutti gli oggetti di valore. Il denaro in possesso viene ritirato e registrato su un conto corrente che “verrà aggiornato con tutti i successivi addebiti di spese”. Parallelamente si possono chiedere contatti con familiari e informazioni generali sulle procedure. Soltanto a questo punto, il detenuto viene sottoposto una visita generale di informazioni mediche e psichiche. Il processo assume i tratti dell’espropriazione identitaria che si conclude con l’assegnazione di una nuova identità applicabile al “mondo interno”. Non si intende mettere in discussione che tutte le procedure di immatricolazione e perquisizione debbano avvenire o avvenire in quella fase specifica. Si intende però considerare l’iter in tutte le sue fasi, e il riscontro che questo può avere in termini di “trauma d’ingresso”.

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