Imputabilità: dalla psicosi alle psicopatie (sentenza 9163/05)


- Posted by Giacomo Piperno
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*A cura di Valentina Della Vecchia
In base all’art. 85 c.p. “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”.
Avere la capacità di intendere (elemento intellettivo) vuol dire essere in grado discernere i fatti nella loro obiettività, avere una visione critica delle conseguenze delle proprie azioni e quindi di comprenderne il valore morale, ossia se l’azione è lecita o illecita. La capacità di volere (elemento volitivo) è la capacità di gestire le proprie pulsioni e autodeterminarsi secondo il motivo più ragionevole, in una visione di valore.
L’imputabilità è formata da entrambe le capacità appena esplicitate. Se nel momento in cui è stato commesso il reato, una delle due manca o sia grandemente scemata per infermità, si può parlare rispettivamente di vizio totale (art. 88) o parziale di mente (art. 89). Il legame tra i disturbi psicotici e il reato può assumere la configurazione di incapacità di intendere e di volere, a causa dell’alterazione dell’esame di realtà, ma non è sempre possibile affermare che la psicosi comporti l’assenza della capacità di intendere e di volere.
La sentenza 9163/05 rappresenta uno spartiacque: anche i disturbi della personalità possono assumere la configurazione di causa idonea a escludere o grandemente scemare la capacità di intendere e di volere; in tale sentenza si precisa inoltre che è necessario stabilire un nesso eziologico tra il disturbo mentale e il fatto-reato, che permetta di ritenere quest’ultimo causato dal primo.
L’imputabilità
L’esclusione dell’imputabilità per infermità mentale non è solo storica ma anche geografica. Le soluzioni codicistiche adottate dai legislatori nei diversi Paesi possono essere raggruppate secondo tre modelli.
- Il metodo puramente psicopatologico o biologico puro: i soggetti affetti da determinate malattie mentali previste dal codice non sono imputabili. In tal caso non si considera affatto se e quanto quella malattia mentale possa aver inciso sulla capacità di intendere e di volere. L’essere portatore di una infermità prevista dalla legge esclude dunque l’imputabilità per il reato commesso. Tale metodo è stato ampiamente criticato per l’automatica assimilazione che viene posta tra malattia mentale e incapacità di intendere e di volere; è diffuso in Norvegia dove le infermità includono affezioni molto gravi come le psicosi o la “deficienza mentale”;
- Il metodo esclusivamente normativo o puramente psicologico: si concentra soltanto sulla eventuale capacità di intendere e di volere indipendentemente dal riscontro di un disturbo mentale. In altre parole, è sufficiente che un soggetto sia incapace di intendere e di volere al momento del fatto, a prescindere dalla diagnosi nosografica di un disturbo, per essere esente dall’imputabilità. Ne costituisce un esempio il codice francese in vigore fino al 1994, che prevedeva l’espressione “demenza” includendovi “la follia furiosa, l’idiozia o l’imbecillità, la monomania o l’allucinazione” ma che finiva per farvi rientrare tutti i disturbi mentali.
- Il metodo psicopatologico-normativo o biologico-psicologico (misto): in questa prospettiva l’infermità costituisce il presupposto affinché il soggetto possa essere riconosciuto come non imputabile ma occorre poi verificare se e quanto la psicopatologia abbia inciso sulla genesi del reato. Tale metodo è adottato nella maggior parte dei Paesi europei (Francia, Germania, Inghilterra, Austria, Svizzera, Spagna, Portogallo), ciascuno con le proprie peculiarità, compresa l’Italia.

Nel codice italiano “ogni persona è responsabile delle proprie azioni, salvo prova contraria” e tra “la prova contraria” è contenuta anche l’«infermità di mente», regolata precisamente dagli artt. 85, 88 e 89. Quindi, tutti coloro che maggiorenni commettono un reato sono imputabili, ossia punibili, ad eccezione del fatto che si tratti di autori che si trovavano in stato di infermità.
Infermità e malattia mentale
Tuttora la definizione e la classificazione delle “malattie” e dei “disturbi mentali” risentono dell’incertezza e del disaccordo da parte di psicologi e psichiatri, questo perché esiste un gran numero di scuole e di correnti di pensiero che hanno proposto di volta in volta teorie ed ipotesi diverse sulla natura e sulla genesi dei disturbi mentali.
Del resto le definizioni e le classificazioni delle malattie mentali sono state elaborate per scopi diversi da quelli valutativi della responsabilità in ambito penale, ossia per fini di conoscenza e di cura. Di conseguenza, la psichiatria forense è stata costretta all’individuazione di regole e di criteri di “traduzione” del sapere psichiatrico per le esigenze del sistema dell’imputabilità.
Pertanto, anche se la definizione di imputabilità, come capacità di intendere e di volere, è stata considerata “vaga” (Delitala, in Crespi, 1970) qualche certezza c’è. Si è concordi sul fatto che il concetto di infermità sia diverso da quello di malattia (Bandini, 1989; Canepa e Traverso, 1987; Mantovani, 1990), e che sia talvolta più esteso e talvolta più circoscritto di questo.
L’approccio psicopatologico forense cerca di stabilire eventuali rapporti tra il/i disturbo/i psicopatologico/i e l’atto commesso (o subìto) avente rilevanza giuridica per poter conferire significato di infermità a tale atto. Il modello della psicopatologia forense prende in considerazione l’intera persona e nel fare ciò integra l’approccio nosografico, psicopatologico e funzionale, attraverso la ricostruzione della storia di vita, interviste, test psicologici e altri mezzi d’indagine (Fornari, 2015).
Da un punto di vista dell’analisi funzionale, i funzionamenti mentali osservabili si suddividono in quattro classi: normale, abnorme, borderline e psicotico. In conclusione, l’infermità è costituita dalla convergenza di un disturbo funzionale che interagisce con un disturbo mentale, al punto di compromettere la capacità di autodeterminazione del soggetto incidendo in maniera rilevante sulle funzioni autonome dell’Io (il “quid novi” che improvvisamente insorge o “quid pluris” che si innesta su un terreno psichico già compromesso) conferendo in tal modo “significato di infermità” all’atto agito (o subito).
La sentenza 9163/05
La Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza 9163/2005, anche detta sentenza “Raso”, ha stabilito che “anche i disturbi di personalità, come quelli da nevrosi e psicopatie, possono costituire causa idonea ad escludere o grandemente scemare, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente ai fini degli articoli 88 e 89 c.p., sempre che siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da incidere concretamente sulla stessa; per controverso non assumono rilievo ai fini della imputabilità le altre «anomalie caratteriali» e gli «stati emotivi passionali», che non rivestano i suddetti connotati di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente; è inoltre necessario che tra il disturbo mentale e il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo casualmente determinato dal primo”.
Tale sentenza esclude dalla nozione di infermità di mente i tratti e i disturbi della personalità che si costituiscono in quadri di stato, in modi di essere della persona (Fornari, 2015). Deve perciò trattarsi di un disturbo che abbia determinato una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile, che incolpevolmente rende l’agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, e conseguentemente di indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto e di autodeterminarsi liberamente (Viola, 2005).

“Le psicosi e le psicopatie”
Il termine psicosi venne introdotto nel 1845 da Ernst Von Feuchtersleben con il significato generico di “follia” o “malattia mentale”, ed indica quelle “condizioni psicopatologiche che si esprimono in una perdita più o meno totale della capacità di comprendere il significato della realtà in cui si vive e di mantenere tra sé e la realtà un rapporto di sintonia sufficiente a consentire un comportamento autonomo e responsabile nell’ambito culturale in cui vive” (Galimberti, 2018).
Si tratta di condizioni che possono manifestarsi in maniera acuta o cronica, temporanea o permanente, reversibile o irreversibile; rappresentano la categoria di disturbi psichiatrici più gravi in quanto tendono a colpire tutti gli ambiti del funzionamento di vita della persona producendo una menomazione generalizzata.
Anche i disturbi di personalità possono rientrare nel concetto di “infermità” ma devono essere di consistenza, intensità e gravità tale da incidere sulla capacità di intendere e di volere del soggetto, escludendola o facendola scemare grandemente in presenza pur sempre di un nesso eziologico tra il disturbo mentale e la condotta criminosa. Antecedentemente alla sentenza 9163/05, in Italia Bini e Bazzi (1967) sono stati fra i primi ad affrontare l’evoluzione dell’inquadramento diagnostico delle personalità psicopatiche e ad anticipare la loro rilevanza in ambito peritale.
Psicosi organiche, reattive ed endogene (o funzionali)
Lepsicosi organiche sono secondarie ad una causa che può essere di natura infiammatoria, endocrina, metabolica, infettiva, tossica, traumatica, neoplastica, degenerativa e genetica. Spesso insorgono in maniera acuta e possono essere transitorie o tendere alla cronicizzazione, il decorso può essere stabile o costellarsi di episodi acuti ed evolvere in un decadimento demenziale. Le psicosi reattive, al contrario di quelle appena descritte, insorgono a seguito di un grave trauma psichico provocato da eventi esterni: la psicosi da lutto a seguito della morte di una persona cara; la psicosi da shock riscontrata nei soldati che hanno fatto esperienze di guerra; la psicosi da detenzione tipica di chi vive lunghi periodi di isolamento; le psicosi gravidiche che si manifestano nella seconda parte della gravidanza e le psicosi puerperali che invece si verificano subito dopo il parto, dalla prognosi quasi sempre favorevole a meno che non vi siano stati precedenti episodi psicotici; la psicosi indotta dalla presenza di una persona con deliri che finisce per il plagiare un altro individuo non psicotico ma debole, immaturo o suggestionabile. L’ultima categoria include le psicosi endogene o altrimenti dette funzionali, così denominate in quanto per esse non è rintracciabile una causalità eziopatogenetica e che comprendono: la schizofrenia, la ciclotimia e la paranoia.
A causa dell’alterazione dell’esame di realtà e l’incapacità di percepire il proprio stato psicopatologico, il legame fra i disturbi psicotici e il reato può assumere la configurazione giuridica della incapacità di intendere e di volere (Capri). Non è possibile affermare che la psicosi comporti sempre e soltanto l’assenza della capacità di intendere e di volere, questa era la visione di una passata psichiatria forense che considerava lo psicotico sempre e comunque alienato e pericoloso. Oggigiorno, da un lato si ammette che anche le situazioni di psicosi possano essere compatibili con la piena imputabilità, adottando una concezione che riconosca la presenza di momenti di “lucidità” in questi disturbi; dall’altro lato ci si domanda se anche quelle che un tempo erano definite “mere anomalie”, soprattutto intese come disturbi di personalità e nevrosi, e come tali non influenti sull’imputabilità non possano invece talora incidervi.

I disturbi di personalità
La personalità è l’insieme delle caratteristiche psicologiche stabili di un individuo. Tale costrutto è determinato da una componente ereditaria (temperamento) e una derivante dagli effetti delle relazioni interpersonali (carattere). Il temperamento indica la disposizione affettiva caratteristica di ognuno, che precede l’esperienza e che predispone ad essa. Si tratta di una dimensione insatura all’esordio della vita, che un gruppo di fattori (biologici, relazionali, intrapsichici e sociali) modifica sotto gli aspetti del carattere e della personalità. Il carattere consiste in quanto appreso nella vita esperienziale a cominciare da quando vengono interiorizzate le regole relazionali e sociali. La personalità si sviluppa ed evolve dalla nascita fino all’età adulta, epoca in cui si suppone siano giunti a maturazione i sistemi biologici del temperamento e si siano realizzate le esperienze relative al carattere. Solo dopo tale età è lecito formulare una diagnosi di disturbo della personalità. Quando i tratti emozionali e comportamentali si discostano dalla norma e quando si tratta di caratteristiche di personalità rigide e maladattive, che causano disfunzioni o disagio, si configura un Disturbo di Personalità, altrimenti si parla di tratti di personalità. “I disturbi di personalità sono tratti che si rivelano costanti, rigidi e non adattivi, al punto da condizionare negativamente il modo di percepire e di rapportarsi a sé stessi e all’ambiente, causando significative compromissioni funzionali e sofferenze soggettive” (Galimberti, 2018). Generalmente gli individui con disturbi di personalità non avvertono ansia o eccesso di sofferenza in relazione ai loro comportamenti maladattivi, che percepiscono come egosintonici (non in conflitto con l’Io).
Organizzazioni di personalità
Kernberg (1978) ha sviluppato un sistema delle organizzazioni di personalità integrando la procedura diagnostica strutturale psicoanalitica con la nosografia descrittiva. Il funzionamento può essere ricondotto a tre organizzazioni di personalità: nevrotica, borderline e psicotica, in base a tre criteri:
-Diffusione/integrazione dell’identità; – Livello di maturità dei meccanismi di difesa; – Tenuta dell’esame di realtà.
L’organizzazione borderline, a sua volta, può essere suddivisa in “alta” e “bassa” a seconda che il funzionamento della personalità sia più vicino al registro nevrotico o a quello psicotico, in base all’utilizzo di meccanismi di difesa più o meno evoluti. Occorre sottolineare che il Disturbo Borderline di Personalità si distingue dall’Organizzazione Borderline di Personalità. Quest’ultima riguarda un funzionamento di personalità, non costituisce una categoria diagnostica, quindi è un costrutto più ampio del Disturbo Borderline di personalità e che comprende un ampio spettro di disturbi (paranoide, schizoide, schizotipico, narcisistico, antisociale, istrionico e borderline; ma anche evitante, dipendente, isterico e ossessivo -compulsivo).
In conclusione, tutte le sentenze concordano nell’affermare che i disturbi della personalità sono idonei a configurare il vizio di mente, qualora siano di gravità tale da escludere o far scemare grandemente la capacità di intendere e di volere del soggetto, tenendo sempre presente la necessità del nesso eziologico tra disturbo e fatto-reato, cosicché quest’ultimo possa essere considerato casualmente determinato dal primo. In ambito psichiatrico-forense, l’infermità non individua un “disturbo mentale” bensì i riflessi di questo sul funzionamento psichico del soggetto e quindi sul suo comportamento.