Il Colloquio Criminologico in Regime Carcerario

Il Colloquio Criminologico in Regime Carcerario
Giacomo Piperno

*A cura di Paola Costanzo

Il colloquio criminologico in regime carcerario ha come antecedente che il presupposto che soggetto in questione è stato riconosciuto colpevole, per uno o più fatti previsti dalla legge quale reato. Il reato è quel fatto giuridico, infrattivo della legge, secondo il principio della legalità, espressamente previsto dal legislatore ed al quale l’ordinamento giuridico ricollega come conseguenza una pena. Si fa riferimento alla colpevolezza non presunta ma accertata all’esito completo dell’iter processuale. Secondo quanto stabilito dall’articolo 27 della Costituzione: “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”.

Definizione e Finalità

Il colloquio criminologico, rappresenta uno degli strumenti indispensabili nell’indagine della personalità del detenuto. Il suo utilizzo comporta un agire scientifico che si basa su criteri di obiettività e di neutralità etica. Per obiettività, s’intendono conclusioni a cui si perviene come risultato dell’indagine e della ricerca sono indipendenti dalla razza, del credo, della professione, della nazionalità, della religione, delle preferenze morali e delle propensioni politiche ecc. Per neutralità etica, invece, s’intende che il professionista, non si schiera da nessuna parte in questioni di significato morale o etico. In tale qualità, egli è interessato non a ciò che giusto o sbagliato, bene o male, ma soltanto a ciò che è vero o falso. Nell’osservazione scientifica di personalità si deve distinguere: il delinquente dal criminale, il delinquente o il criminale occasionale da quello patologico, il “detenuto in luogo” in attesa di giudizio o meno, dall’“autore di reato”. Il colloquio criminologico clinico ha la finalità di rispondere sia a problemi diagnostici di criminogenesi e criminodinamica, sia a problemi prognostici, ossia previsioni di comportamento futuro sia dare indicazioni di trattamento criminologico.

Tale colloquio, presenta delle caratteristiche simili al colloquio clinico, in quanto alla base vi è sempre un’attenzione particolare sia agli elementi verbali che caratterizzano il colloquio, sia a quelli non verbali, come la mimica, la gestualità e gli atteggiamenti.

Il colloquio criminologico ha l’obiettivo di esporre tutti i dati e gli elementi che consentano di arrivare ad una conoscenza approfondita del crimine che il soggetto ha commesso. Il momento valutativo è prevalente rispetto a quella di aiuto e di supporto. Certo è che se nel corso del colloquio dovesse emergere una richiesta di aiuto in senso terapeutico, oppure se si avesse l’occasione di fornire buoni consigli, è possibile farlo, ma con la consapevolezza che non è questo il fine del colloquio. In quello clinico il paziente sceglie e decide di partecipare, nel caso di quello criminologico, al contrario, non vi è nessuna libera scelta, ma semmai è un atto dovuto che si incastra all’interno di un meccanismo con regole rigide, quale quelle dell’esecuzione penale. Questa situazione di non libera scelta può rendere la conduzione del colloquio più complessa.

Fasi del Colloquio

Nello svolgimento di un colloquio sia terapeutico sia di ricerca si distinguono tre fasi che ben si adattano anche a quello criminologico.

Le fasi sono:

Fase Prima di inizio formale o preliminare

in cui ci si presenta. Questo permette al soggetto esaminato di sapere chi è il proprio interlocutore nonché le ragioni dell’incontro;

Fase centrale

quella dedicata alla raccolta approfondita delle informazioni che si suddivide solitamente in due parti.

a) in cui ci si sofferma maggiormente su dati prettamente biografici;

b) in cui ci si sofferma sull’argomento reato e sulla situazione giudiziaria del soggetto.

Requisito preliminare e indispensabile è quello di essere informato sui dettagli della vicenda giudiziaria, conoscere i dettagli legati al reato che permette di formulare le domande corrette da porsi, di individuare le informazioni utili da ricercare ed eventualmente analizzare, evitando così di insistere su elementi inutili che farebbero perdere tempo prezioso. Nello specifico si individuano tre macro-aree caratteristiche di questo processo, una di tipo valutativo, una di tipo predittivo e l’ultima di tipo indicativo.

Fase Ultima

Quella conclusiva che porta alla riflessione sulla restituzione vera e propria, all’interno di una perizia, dove verrà riassunto il percorso fatto attraverso il colloquio e verranno sottolineati gli aspetti particolari emersi, attenendosi alla realtà di vita personale del soggetto, suggerendo alcune riflessioni utili ad una sensibilizzazione volta alla modifica dell’immagine di sé, alla sua vita carceraria, alla sua reintroduzione futura nella società.

Perizia Criminologica

Nella pratica penale, all’inizio del secolo, antropologi e psichiatri forensi facevano ingresso nelle corti di giustizia con una certa sicurezza, avendo a disposizione quelli che a quei tempi erano ritenuti i “migliori strumenti”. Anche i giornalisti concedevano ampio spazio ai periti, perché i lettori volevano conoscere l’identità dell’imputato e soprattutto, le sue motivazione all’azione criminosa. Appare doveroso, iniziare l’argomento almeno accennando al problema terminologico inerente la “perizia”. Essa deriva dal latino peritia(m) e da peritus, “perito”, colui che è esperto, abile in qualcosa. L’autorità giudiziaria può nell’ambito della fase delle indagini preliminari, o anche in sede di dibattimento, avvalersi della prestazione di tecnici che per cultura, esperienza e professionalità, sono ritenuti idonei ad indagare su particolari problemi.

Quando tale collaborazione si esplica nell’ambito penale si parla di perizia, quando si esplica nell’ambito civile si parla di consulenza tecnica. Nel 1913, con il codice di procedura penale, si ha la possibilità di svolgere una perizia criminologica. Esso, non poneva alcun limite alle indagini personali del giudice o del perito, ma stabiliva espressamente che questi, d’ufficio o su istanza, potessero procedere a tutte le indagini richieste necessarie. Il codice penale italiano del 1930 fu tra i primi a dare rilevanza alla personalità del reo. Tale apertura, tuttavia entrò in forte contrasto con i limiti posti dal codice di procedura penale dello stesso anno, che poneva duri ostacoli all’indagine sulla personalità dell’imputato. “Non sono ammesse perizie per stabilire l’abitualità o la professionalità del reato, la tendenza a delinquere, il carattere o la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche“.

A parere di alcuni studiosi tale divieto discenderebbe da un principio di civiltà dal quale sarebbe pericoloso deviare. ll divieto veniva giustificato con la necessità di evitare una lesione del diritto al rispetto della persona. In tal senso, la dottrina evidenziò come l’art. 314 c.p.p. comma 2, vietava solo il ricorso alla perizia criminologica e non ad altro mezzo di indagine. Risulta possibile che l’atteggiamento del legislatore nei confronti della perizia criminologica, fosse dovuto anche al timore di un eccessivo e indiscriminato uso della stessa. L’utilizzo della perizia, tuttavia, non venne impedito in fase di esecuzione della pena e nell’ambito del processo minorile, ove si può parlare di perizia psicologica. Nel corso degli anni fino a giungere ad oggi la perizia ha assunto un ruolo importantissimo nel sistema legislativo, diventando un’indagine completa sul soggetto imputato. Tale soggetto viene visto nella sua globalità, comprendente non solo gli elementi volti ad accertare l’infermità mentale, ma tutti gli aspetti da quello dinamico a quello biofisico per includere l’analisi del suo contesto sociale, ambientale, familiare. La perizia criminologica è il passo successivo alla raccolta delle informazioni avvenuta con il colloquio criminologico.

L’ Istituzione Penitenziaria

Durante la prima metà del XIX secolo, in Italia come in altre Nazioni europee, sorse una riflessione sulla questione criminale e principalmente sulle modalità d’esecuzione della pena, originata dalla volontà di rafforzare la portata intimidatoria e deterrente della carcerazione. Nonostante l’attuazione di alcune riforme, presto ci si accorse dell’insufficienza di tali misure per il perseguimento del fine: seguì perciò una fase di profonda disillusione, che si caratterizzò in un periodo di stallo, entro il quale si cercò di rimuovere il problema dalle priorità dei governi. Il carcere, di conseguenza, venne considerato un’istituzione totalizzante, indifferente rispetto ai soggetti ivi reclusi, in grado di perseguire come unico obiettivo la deterrenza. L’idea della risocializzazione del reo fu sviluppata, a partire dal secondo dopoguerra, dalla dottrina della nuova Difesa Sociale, che riprese i temi che già la criminologia positivista aveva affermato.

La Pena

All’interno di ogni gruppo sociale si è sempre avvertita l’esigenza di regolamentare la vita dei consociati attraverso regole che tutelino i valori e i beni fondamentali della società stessa: da un lato, infatti, le norme hanno il compito di orientare il comportamento dei consociati, stabilendone i limiti e le possibilità; dall’altro, devono prevedere un apparato sanzionatorio che funga da deterrente alla violazione. Da ciò discende la necessità di definire la funzione della pena.

La concezione retributiva della pena, denominata anche del “corrispettivo”, intende la pena come castigo da infliggere al reo per quanto commesso in violazione di un comando. Residuo ed evoluzione di una delle prime forme di specificazione del sistema delle pene, la legge del taglione, per cui alla violenza si risponde con una violenza simmetrica, eguale e contraria a quella che ha infranto l’ordine dato.

La pena

Le dottrine relative alla funzione preventiva, fondate sulla ideologia utilitaristica, si distinguono in generalpreventive e specialpreventive. Le prime intendono la pena (inflitta ad un soggetto) come monito, intimidatorio nei confronti degli individui inclini a commettere azioni delittuose. Essa agisce psicologicamente come controspinta alla spinta criminosa, così da disincentivare la violazione della legge. Si fa, inoltre, promotrice di determinati valori sociali nel momento in cui acquista anche un ruolo moralizzatore ed educativo dato dall’inflazione stessa, implicante il messaggio che delinquere è male.

La teoria della prevenzione si muove, invece, sul terreno della personalità del reo e della sua eventuale pericolosità sociale. In tale prospettiva, la pena ha la funzione di deterrente alla commissione di altri reati da parte del soggetto colpevole. Non si rinviene il presupposto della sanzione nel fatto incriminato, bensì nell’esigenza che non vengano perpetrati altri crimini. Si tende, dunque, ad una prima, seppur grezza, funzione rieducativa della pena. Infine, la teoria dell’emenda, enunciata nell’art. 27 della nostra Costituzione, ha come obiettivo ultimo il reinserimento nella società del reo.

A partire dal secondo dopoguerra, avanza l’idea secondo cui la risocializzazione costituisce un diritto per il cittadino ed un dovere per lo Stato, tenuto a garantire e promuovere il benessere sociale di tutti i cittadini. La rieducazione consiste nella possibilità, data al soggetto, di un progressivo reinserimento sociale, correggendo la propria antisocialità e adeguando il proprio comportamento alle regole giuridiche. Per il perseguimento di tale obbiettivo, rivestono un ruolo di particolare importanza quegli strumenti pedagogici volti alla responsabilizzazione e all’analisi delle conseguenze delle proprie azioni.

Colloquio Criminologico con il detenuto in regime carcerario

Nell’ambito del colloquio tra il detenuto e la figura professionale del criminologo in regime carcerario, si intrecciano molteplici elementi che concorrono a rendere tale relazione difficoltosa. Diffidenza e pregiudizi sono comuni sia negli operatori sanitari nei confronti dei detenuti, sia da parte di questi ultimi nei confronti degli operatori. Il detenuto spesso è percepito come un manipolatore, per lo più orientato ad ottenere benefici secondari da chiunque. Gli operatori sono inquadrati nell’ottica della tipica “sottocultura carceraria” che prevede una divisione netta tra il mondo del detenuto e quello degli “altri”, e ad una tipica strutturazione “paranoidea” della personalità del detenuto che, senza necessariamente sconfinare nella psicopatologia, si caratterizza per sospettosità, sfiducia e marcato utilizzo di meccanismi proiettivi. In questo senso, il colloquio con il detenuto va necessariamente decodificato e interpretato nel suo significato e nelle sue specifiche dinamiche. Il mondo del carcere implica valori, scelte di comportamenti non sempre sovrapponibili a quelli che una persona può gestire, in libertà, al di fuori delle mura carcerarie e delle regole che la condizionano.

Spesso è difficile ottenere delle risposte obiettive, precise, specifiche, anche a domande apparentemente semplici. La risposta, per lo più, è vaga, imprecisa, onnicomprensiva e soprattutto, tende a variare nel corso del colloquio stesso. La nebulosità delle risposte è tanto più evidente quanto più il detenuto non ha idee chiare su quello che vuole o può ottenere dalla persona che gli sta facendo il colloquio. Queste risposte, a largo alone semantico, non impediscono che a volte vengano date risposte del tutto non veritiere, finalizzate ad ottenere specifici guadagni secondari.

Spesso chi opera in istituzioni penitenziarie si ritrova nel colloquio criminologico con il detenuto ad essere investiti dal lui, nel senso vero e proprio del termine, da un affollamento confuso di problemi che egli con ansia, agitazione e talvolta in modo aggressivo e provocatorio, getta sulla scrivania o direttamente sulla coscienza di chi lo ascolta. Il detenuto è spesso oggetto, in carcere, di penose frustrazioni, non solo legate alla vita carceraria, ma anche alle notizie che possono giungere dall’esterno. Alla frustrazione, egli può reagire con dei passaggi all’atto, con autolesionismi, tentativi di suicidio, aggressioni, crisi distruttive, che provocano a loro volta un grave scompiglio nel carcere, creano turbamento ed ansia tra il personale medico e paramedico ed il personale addetto alla custodia, perché appaiono non sempre prevedibili e soprattutto, molto difficili da gestire.

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