Danno psichico e dissociazione nel trauma complesso

Danno psichico e dissociazione nel trauma complesso
Giacomo Piperno

*A cura di Francesca Bille

“Gli altri sembravano così vitali, occupati vivacemente l’uno dell’altro. Al contrario io mi sentivo a pezzi e istupidito, il guscio dell’uomo che ero stato un tempo. Un abisso invalicabile sembrava essersi aperto separandomi per sempre dai miei amici e colleghi. Essi non avrebbero potuto nemmeno cominciare ad avvicinarsi alla comprensione della mia esperienza, dicevo a me stesso, perché in quel momento noi vivevamo in mondi totalmente differenti”

 (Stolorow, la fenomenologia del trauma e l’assolutismo della vita di ogni giorno)

Comprendere una storia traumatica è già di per sé un lavoro enorme per lo psicologo proprio per la complessità e la contraddittorietà dei vari segnali che il paziente palesa e dell’indagine clinica volta a ricercarli per stabilire un nesso causale tra i vissuti e le sintomatologie. Ancor più complicato risulta poi rilevare l’entità di un danno psichico così articolato, quantificarlo e delinearne corpo e sfumature nell’ambito di perizie per cui si dispone di risorse a volte limitate e tempi ridotti.

Proprio per la pervasività delle conseguenze che il trauma complesso apporta nella vita della persona, per la dannosità e per il blocco vitale che la vittima direttamente o indirettamente subisce; i professionisti della salute e i consulenti tecnici non possono tralasciare l’enorme quantità di dati necessari ma soprattutto l’attenta e scrupolosa indagine clinica di questo così grande nemico dell’integrità che è il trauma complesso con tutti i suoi possibili sviluppi.

Il trauma complesso

Il trauma psicologico può essere compreso su due fondamentali dimensioni. La prima è quella relativa all’entità dell’evento stesso che in genere si identifica con un’esperienza di morte imminente o una lesione ripetuta nel tempo, o ancora con una condizione che porta ad una grave potenziale/effettiva perdita dell’integrità fisica.

Creare una classifica o una tassonomia dei vari eventi potenzialmente traumatici sarebbe pressoché impossibile, ovviamente, per l’immensa varietà di fatti reali che l’essere umano può trovarsi a sperimentare nell’arco della sua esistenza.

L’elemento chiave che definisce il quadro sintomatologico del vissuto traumatico come complesso è relativo al suo carattere squisitamente interpersonale, e il fatto che si presenti in modo cumulativo e ripetuto nel tempo a intervalli più o meno regolari. Da subito questo indizio ci conduce a restringere il focus soprattutto a quelle esperienze che vengono vissute nella prima infanzia o nella fase dello sviluppo, nei periodi della maturazione della personalità e dell’identità personale, e che sono protratte per periodi più o meno lunghi:

  • storie di abuso e maltrattamenti ripetuti in famiglia
  • grave trascuratezza e abbandono
  • condizioni prolungate di torture e prigionia
  • guerre e migrazioni forzate.

 L’altra dimensione su cui viaggia la comprensione del trauma complesso è relativa alla percezione che il soggetto ha dell’evento. Questo aspetto è cruciale aldilà dell’evento stesso, in quanto è la modalità con cui viene esperito che ne fa assumere i colori della traumaticità. Un evento può essere non immediatamente ricollegabile alle situazioni di vita sopra descritte ma generare dei sentimenti nella vittima tali da poter assumere a tutti gli effetti le connotazioni di un vissuto psicotraumatico. Ed è proprio a partire dall’analisi del vissuto, solo e soltanto da questo, che le ricerche cliniche possono assumere valenza ai fini diagnostici.

Il trauma complesso

Intensità e pervasività del trauma complesso

Il trauma complesso si contraddistingue per intensità e pervasività. A differenza del disturbo da stress post traumatico, i cui criteri diagnostici sono presenti in modo ufficiale nel DSM-V, nella fenomenologia del trauma complesso non è presente solamente la condizione acuta del rivivere l’evento traumatico in modo più o meno circoscritto attraverso attacchi di panico, ansia, flash back, e così via; piuttosto una serie più strutturata di conseguenze che si cronicizzano toccando l’intero funzionamento della personalità e minando in modo totalizzante l’integrità dell’io:

  • alterazioni nella regolazione emotiva
  • disturbi della coscienza e dell’attenzione
  •  somatizzazioni
  • alterazioni della percezione di sé
  • alterazione della percezione delle figure maltrattanti
  • disturbi relazionali
  • alterazione nei significati personali.

Più precisamente, quindi, un disturbo post traumatico da trauma complesso (DPTSc), avendo le sue basi in un vissuto disintegrante di natura interpersonale, comporta una alterazione nei significati personali della vittima. Nasce da qui un ulteriore considerazione in merito all’assenza di un quadro diagnostico ufficiale per il disturbo da trauma complesso nel DSM-V. Da un lato la sua presenza sarebbe senz’altro opportuna e giustificata dal fatto che le evidenze scientifiche nell’ambito della ricerca e della pratica clinica abbiano effettivamente confermato la correlazione esistente tra trauma di natura interpersonale dello sviluppo e conseguenti sintomi dissociativi, disturbi della personalità e così via. D’altro canto, forse, presentandosi un esito così impattante sulla vita della persona e di così immensa portata viene rimandata direttamente al clinico la sua valutazione; e di conseguenza la possibilità di ricostruire le parti di un puzzle nella storia evolutiva dando una spiegazione valida e coerente alla sintomatologia presentata a partire da categorie diagnostiche anche molto diverse tra loro e in una prospettiva multidimensionale che indaghi non solo la presenza di alcuni segni clinici su scala categoriale a favore di una spiegazione teorico clinica flessibile nella reale comprensione di momenti della vita della persona imprescindibili.

Trauma complesso e sistemi di attaccamento

Un sistema di attaccamento disfunzionale con la figura genitoriale nella primissima infanzia può definirsi, infatti, già di per sé trauma complesso; e ancora: “La variabile principale che media la diversa risposta ai traumi, patologica oppure non tale, potrebbe infatti essere il diverso stile di attaccamento”

 (Farina, Liotti, 2011).

Nella stesura di una relazione psicodiagnostica sulla base dei diversi strumenti che si hanno a disposizione, tra cui interrogatori, colloqui clinici, test, osservazione, centrale è l’importanza del colloquio clinico e l’analisi dettagliata della storia di vita della persona. Il racconto dell’esistenza può svelare una cascata rilevante di indizi preziosi che consentono di delineare un quadro chiaro e coerente di alcuni nessi causali. Spesso ci si confronta con colloqui a minori che sono stati abusati per definire la capacità a rendere testimonianza o per quantificare il danno psichico, a dover inquadrare un profilo di personalità di un caregiver per valutarne l’idoneità genitoriale. In tutti questi casi il lavoro non può prescindere dall’analisi attenta della natura del sistema di attaccamento e di come quest’ultima possa aver inciso nei rapporti relazionali successivi.

Che cos’è uno stile di attaccamento?

Fondamentalmente si definisce come stile di attaccamento quello schema relazionale di bisogni, cure e conforto che si delinea nei meccanismi mentali, comportamentali e fisiologici del bambino nei suoi primissimi anni di vita; nel rapporto col caregiver. Ovviamente quest’ultimo è subordinato al tipo di risposta che il caregiver offre, delineando così la struttura qualitativa della relazione, fatta di stimoli e risposte che si autoalimentano e che creano una retroattività nelle modalità con cui i protagonisti interagiscono tra loro.

La natura disfunzionale di questi rapporti crea una base di vulnerabilità nella gestione degli eventi negativi della vita, primo fra tutti il trauma. Studi empirici dimostrano che un attaccamento insicuro con le figure genitoriali aumenta il rischio di sintomi post traumatici gravi in seguito ad eventi di vita che minacciano l’integrità psicofisica. La ricerca sperimentale ha individuato quattro principali stili di attaccamento con le figure genitoriali: sicuro, insicuro-evitante, insicuro-ambivalente e disorganizzato.

Quando gli schemi mentali del bambino sono intrisi, nel corso del suo sviluppo, di sentimenti di insicurezza, incertezza, paura, poca fiducia e poca disponibilità di supporto da parte dei caregiver che rispondono alle loro richieste in modo assente, contraddittorio o insicuro ecco che verranno a mancare delle strutture mentali funzionali (definite MOI -modelli operativi interni) di relazione che minano il fronteggiamento delle situazioni stressanti proprio l’ impossibilità sia nell’apprenderle, sia nell’avere fiducia in queste, sia nel non aspettarsi il supporto.

L’adulto con attaccamento disfunzionale non chiederà aiuto, non sarà pienamente consapevole di poterlo ricevere, o se lo chiederà sarà spaventato dal non trovare la risposta adeguata; non potrà attingere dalle proprie risorse interne perché non le avrà allenate insieme ai genitori quando era un bambino.

Dissociazione post-traumatica

Numerosi studi sui disturbi dissociativi sono in accordo sul fatto che molto spesso essi siano collegati a vissuti traumatici e che quindi assuma centrale importanza il racconto della storia di vita della vittima di abuso.

Dissociazione post-traumatica

Infatti, quando in una CTU l’esperto si trova a dover condurre un colloquio clinico, ad esempio, con adolescenti o bambini abusati sessualmente, si deve stabilire sotto quesito del giudice l’entità del danno psichico o la capacità a rendere testimonianza. Sono molte le aeree del funzionamento globale del ragazzo/a che debbono essere analizzate; ed essendo il colloquio clinico il primo e più prezioso strumento che lo psicologo ha a disposizione, utilizzarlo per approfondire la natura della relazione di attaccamento risulta un passaggio imprescindibile. Ciò detto, per comprendere quanto quest’ultima, che sia abusante o disorganizzata, abbia provocato nel ragazzo una compromissione grave del suo funzionamento cognitivo, socio-relazionale, fisico e comportamentale dobbiamo operare in parallelo sia nell’ascoltare ed interpretare la narrazione degli eventi significativi della vita sia nell’osservare l’eventuale presenza di importanti segni clinici. Nel quadro di un disturbo della dissociazione vi è il principale sintomo dell’esperienza del distacco. La persona si sente alienata da sé stessa. La coscienza di sé appare fortemente disintegrata e spesso in contraddizione. Ci si avverte estranei da sé per tutto ciò che concerne emotività, pensiero, percezioni, movimenti e così via. Questa alienazione si traduce nei due sintomi dissociativi più descritti: depersonalizzazione e derealizzazione.

Nella depersonalizzazione ci si percepisce distaccati da sé stessi e nella derealizzazione ci si sente estranei rispetto alla realtà. In questo senso il lavoro del clinico è sia quello di interpretare la natura verbale di questi sintomi ma anche di analizzare il comportamento non verbale come la postura, il movimento oculare, la posizione degli arti e così via. Un bambino che è seduto davanti a noi con le braccia conserte e ricurvo, in manifesto disagio e in una condizione di immobilità e di mancata fluidità del movimento probabilmente sarà intrappolato in una condizione di immobilità difensiva rispetto ad un vissuto traumatico.

Blog Attachment

Lascia un commento